Dolore
Ogni volta che mi separo da mia Figlia, mi dico: “questa è la volta peggiore di tutte”. E poi invece la volta successiva è ancora peggiore della precedente. Questa è stata la volta peggiore di tutte. Vero, è l'ultima. Ma è stata la peggiore. È toccato a me questa volta prendere l’aereo per ritornare “a casa”. Per fare rientro a Torino. Dopo quasi 2 mesi di nulla fare (nel senso di non lavorare) e di riposo, ho dovuto fare rientro. Ho dovuto curare il mio collo, dopo l’incidente di cui avevo scritto qui. Dopo lo schifo: le minacce della Ditta, il dovere sostenere personalmente le spese per le cure mediche, le successive minacce telefoniche di farmela “pagare” quando sarei tornato a lavorare… è tornata l’ora di riprendere il lavoro. E quindi di rientrare a Torino. Fra qualche ora torno a lavorare. Minacciato. Ma non è certo questo a procurarmi dolore. No. E nemmeno la schiena che mi sono dovuto spezzare per pulire “casa”. Chiusa da parecchio tempo, era parecchio impolverata. E siccome la mia “sindrome da casalinga frustrata”, come mi disse una volta qualcuno, non accenna a voler guarire o anche solo diminuire, mi sono spaccato la schiena a spolverare tutto e pulire tutto per benino. E di cose da spolverare ne ho abbastanza. Mi ci vorrebbero delle vetrinette, per far sì che la polvere non si vada a depositare su tutti gli oggetti e oggettini che tengo sui mobili, sui comodini, sulle librerie e su qualsiasi cosa possa trasformarsi in un piano d’appoggio. Mi ci vorrebbero. Ma per ora rimangono nella lista delle cose che un giorno comprerò. Un giorno. Magari quando potrò anche avere una casa tutta mia. Giorno che al momento appare proprio molto lontano. Ma non è nemmeno questo, che mi procura dolore. E nemmeno aver dovuto pagare le varie bollette e spese e spese impreviste tipo la batteria della macchina. No. Questo, in fondo, fa parte del vivere da soli. Della normale routine del vivere soli: pulire, cucinare, pagare bollette… A procurarmi dolore è stato salire a bordo di quell’aereo. E, ancora prima, dover entrare in ascensore con le valigie, per dirigermi per l’appunto all’aeroporto. Il saluto con mia madre. Le ho rivisto in faccia l’espressione di quelli che ormai sono diventati 5 anni fa. Un giorno che non dimenticherò mai. Una sera, anzi. In cui mi recai, solo, al porto per imbarcarmi con la macchina e venire qui. Una sera. In cui salutai tanto speranzoso quanto piangente la mia Bimba e i miei genitori. Speranzoso di poter trovare con una certa facilità un lavoro che mi avrebbe consentito di far salire la Piccola al più presto. Sono trascorsi 5 anni. E continuiamo a fare sali e scendi. E più passa il tempo… più i distacchi diventano dolorosi. Si invecchia anche nell’animo, oltre che fisicamente. E ci si indebolisce anche nell’animo, oltre che fisicamente. Perché la stanchezza ha un peso incalcolabile. E le spalle, anche se continuano a reggere il peso, cominciano a curvarsi. Un ultimo panino con le panelle, in compagnia della mia Bimba, di fronte al mare, e poi l’avvio verso l’imbarco. Un ultimo abbraccio e un ultimo bacio… e poi il distacco fisico. Mentre mi facevano togliere gli stivali per passare sotto un metal detector. Voltarsi in continuazione. Cercare in continuazione gli occhi di colei che continuo a definire la mia unica e vera ragione di vita. Vivo per Lei. Non posso morire per Lei. Camminare un po’ come un gambero. Per guardarla fino alla fine. Perché adesso… quando ci rivedremo? Non so. Un mese? Due? Anche un solo giorno, è per me uno strazio. Una tortura. Un’altra fucilata alla mia armatura. Che, resistente per quanto possa essere, non è indistruttibile. Anche perché i proiettili diventano sempre più somiglianti a delle palle di cannone… Incamminarmi verso l’aereo con un peso addosso mille miliardi di volte superiore a quello della pesante valigia piena di dvd che portavo in spalla. Dolore. Dolore che si protrae da 5 anni. Pesante, dolore. Salire sull’aereo, camminare per quel corridoio fino alla fine dell’aereo. Ultima fila. Ultimo posto vicino al finestrino rimasto disponibile. Per poter dare un’ultima occhiata al mare, prima di prendere la rotta per Torino. Il mare di Palermo, intendo. E scattare un’ultima foto. Mentre camminavo per quel corridoio, i miei occhi si posavano sulle ragazze sedute da sole e carine. Ma non era una distrazione. Avveniva in automatico. Ormai sono convinto che non sia il mio istinto a farmi fare certe cose e a lanciare certi sguardi. Sono malato. È una malattia che mi impedisce di ignorare le donne. Perché le guardavo anche se non le volevo. Ma lo facevo. Volevo solo tornare indietro. Stracciare il biglietto. Riabbracciare la mia Piccola. Mi sono seduto. Ho guardato la pista. E poi le montagne e poi il mare. E poi le nuvole. E poi siamo arrivati. E poi ho recuperato l’altra valigia. Quella coi vestiti. Ho cucinato. Pulito. Pagato. Non voglio vedere nessuno. Non voglio parlare. Non vorrei lavorare. Ma ancora qualche ora e dovrò farlo. Fare tutte queste cose. Con dolore. Col dolore. Con un dolore terribilmente penetrante e terribilmente doloroso. Il dolore della lontananza di mia Figlia. Cosa, può darmi sollievo? Cosa, potrebbe darmelo? Nulla. Assolutamente niente di nulla. Mi manca la mia Bimba. Da impazzire. Di dolore. E di testa. E di animo. Dolore…
Non sto scrivendo per cercare conforto o parole di sostegno. No. Anzi, senza offesa per nessuno, le troverei banali e stupide. Non si dovrebbe mai cercare di confortare o alleviare un dolore di cui non si conosce l’entità. Di cui non si conosce la spaventosa e terrificante intensità e forza distruttiva interiore. E voglio augurarmi che nessuno tra i miei lettori stia vivendo lontano dai propri Figli. Per cui non voglio parole o consigli o abbracci. E allora perché scrivo? Perché ho sempre pensato e sostenuto che nel momento in cui scriviamo i nostri pensieri, questi prendono corpo e vita. Solo scrivendoli, si possono catalogare, studiare, filtrare, conservare, gettare, sviluppare e quant’altro. Solo nel momento in cui i nostri pensieri diventano qualcosa di “concreto”, possiamo rivederli e capirli ed elaborarli o metabolizzarli. Per questo, scrivo del mio dolore. Per dare fisicità ai miei pensieri. E al mio dolore. Ed essendo ora divenuti corporei… posso adesso celebrarne il funerale. Già. Perché ho la morte nel cuore.
Non sto scrivendo per cercare conforto o parole di sostegno. No. Anzi, senza offesa per nessuno, le troverei banali e stupide. Non si dovrebbe mai cercare di confortare o alleviare un dolore di cui non si conosce l’entità. Di cui non si conosce la spaventosa e terrificante intensità e forza distruttiva interiore. E voglio augurarmi che nessuno tra i miei lettori stia vivendo lontano dai propri Figli. Per cui non voglio parole o consigli o abbracci. E allora perché scrivo? Perché ho sempre pensato e sostenuto che nel momento in cui scriviamo i nostri pensieri, questi prendono corpo e vita. Solo scrivendoli, si possono catalogare, studiare, filtrare, conservare, gettare, sviluppare e quant’altro. Solo nel momento in cui i nostri pensieri diventano qualcosa di “concreto”, possiamo rivederli e capirli ed elaborarli o metabolizzarli. Per questo, scrivo del mio dolore. Per dare fisicità ai miei pensieri. E al mio dolore. Ed essendo ora divenuti corporei… posso adesso celebrarne il funerale. Già. Perché ho la morte nel cuore.